E torno all'Auditorium, ammantato di una specie di aurea, ogni mattoncino mi ricorda Lei. Mi aggiro tra avventori ed esercenti, e non riesco a non vederla dapertutto:
Arrivo e trovo una masnata di gente che manifesta. Hanno fatto chiudere i cancelli. Da paura! Forse non si entra! Questa la svango! Basta con questi film giapponesi!
- Ma per cosa manifestate?
- Manifestiamo per il reinserimento della rara pianta Armeria Caespitosa nei prati italiani! Poi c'è la delegazione che manifesta per abolire la barbara usanza del trasporto di pomodori in camion non refrigerati! E poi là la delegazione per i diritti degli uomini con il riporto! Sei dei nostri?
- Puoi scommetterci bella!
E invece, poi la vita fa un giro di peppe ed ecco che vedo il film, e, guarda caso: ecco il film più bello visto finora, ecco:
La famiglia imperfetta
Toilet
Trama: Lui, che ha fatto della routine una religione, la sorella rock'n'roll, il fratello concertista recluso per scelta e, a vegliare su di loro, la nonna giapponese. Una famiglia "disfunzionalmente" felice.
Sono contento. Perché questo film rimette a posto tutto quello che ho scritto su tutti i film Jappi visti fin'ora. Ammettiamolo, ero partito con il massimo delle prevenzioni mixati ai preconcetti con aggiunta di pregiudizi, e non è che i film visti (ok per le visioni pop di Sakuran, per l'interessante Box, per la curiosità impudica di Yoyochu) mi aveva davvero fatto cambiare idea. C'è voluto Toilet, che, incredibilmente, sembra essere stato fatto proprio per rispondere alla domanda che inevitabilmente ci si chiede quando ci si affaccia sulla cultura giapponese: ma ci sono o ci fanno? (in parole broccole). Toilet parla proprio della percezione che la cultura Occidentale ha di quella Orientale, e chiaramente, viceversa.
Il protagonista, a cui muore la madre, si ritrova a dover vivere, stravolgendo la sua routine abitudinaria fino all'ossessione, con due fratelli un po' (tanto) matti e con una nonnina giapponese; e il dubbio di non appartenere a quella famiglia, o che comunque ci sia "qualcosa di strano", ci sia almeno uno degli elementi che non quadra, sorge subito, a noi e al protagonista, dando vita nel corso del film ad una trama (e soprattutto un finale bellissimo) che sottolinea, come nella migliore tadizione dei film "famigliari", che la parola "famiglia" è appunto, solo una parola. La famiglia è l'amore tradotto in capelli, carne, pensieri, sguardi.
E proprio la percezione "fasulla" della cultura giapponese è alla base di una serie di scene davvero divertenti e insieme profonde. Amare i robottoni e costruire i modellini di Gundam non è amare la cultura giapponese. Amare il sushi (occidentalizzato, che infatti Baachan rifiuta), non è amare la cultura giapponese. Iniziate invece ad amare una nonnina giapponese muta, guardinga, immobile, che si blinda al bagno per ore (e che ha costretto tutta la famiglia ad usare uno di quegli spaziali bagni giapponesi che ci fanno tanto ridere a noi occidentali).
La stramba famiglia di Toilet sembra uscita da un fim di Anderson (e non è un caso se il protagonista ricorda così tanto il Max Fischer di Rushmore, e che il trailer abbia così tanti rimandi allo stile tenembauniano:
Ma davvero si vede lontano un miglio che la regista sa di cosa sta parlando, e lo fa con un tatto tutto femminile. Uno sguardo delicato e romantico e giovane sulle differenze che stanno alla base, su quelle differenze che io stesso "prendo in giro" ma che sono in realtà un monito perenne di quello che parole come "fratellanza", "tolleranze", persino "amore" (parole che il più delle volte sono messe in mezzo a riempitivo) vogliono dire, ma lo fa in maniera "piccola" e particolare. Senza entrare nei massimi sistemi, allargando a macchia d'olio un discorso che un broccolo non potrebbe poi reggere fino in fondo (tral'altro, mica vorrete un C&B che si mette ad amare tutto e tutti?) direi che Toilet parla delle persone che ci stanno accanto. Non della serie "Evviva l'umanità! Vogliamoci tutti bbbene!", più una cosa del tipo "Queste sono le persone che quando piangi, ti guardano e non pensano 'che palle', abbine cura, come loro ce l'hanno con te".
Ma davvero si vede lontano un miglio che la regista sa di cosa sta parlando, e lo fa con un tatto tutto femminile. Uno sguardo delicato e romantico e giovane sulle differenze che stanno alla base, su quelle differenze che io stesso "prendo in giro" ma che sono in realtà un monito perenne di quello che parole come "fratellanza", "tolleranze", persino "amore" (parole che il più delle volte sono messe in mezzo a riempitivo) vogliono dire, ma lo fa in maniera "piccola" e particolare. Senza entrare nei massimi sistemi, allargando a macchia d'olio un discorso che un broccolo non potrebbe poi reggere fino in fondo (tral'altro, mica vorrete un C&B che si mette ad amare tutto e tutti?) direi che Toilet parla delle persone che ci stanno accanto. Non della serie "Evviva l'umanità! Vogliamoci tutti bbbene!", più una cosa del tipo "Queste sono le persone che quando piangi, ti guardano e non pensano 'che palle', abbine cura, come loro ce l'hanno con te".
Poi, senza pensarci mi veniva in mente questa serie del fotografo japponese Tatsumi Orimoto:
La serie si chiama Art Mama - the existence of my mother is art. Dove lui è il figlio, fotografo, e le foto sono una perenne e giocosa e triste e ironica e bellissima dichiarazione d'amore per la mamma, malata di alzheimer.
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