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venerdì 1 giugno 2012

TOFU&BROCCOLI • SPECIALE FEFF14

Nonostante in occasione degli Awards avessi detto «AH! Nel 2012 mi impegnerò di più! Più tofu per tutti!», la triste verità è che questo è il PRIMO Tofu&Broccoli dell’anno. Alabama epic fail. Più che cospargermi il capo di cenere e fustigarmi con violenza lacrimando sangue non so cosa fare. C’è la crisi la crisi, la colpa è della crisi! Mettiamola così…
Vabbè, detto questo e risolti gli spinosi sensi di colpa, cominciamo con il succulento reportaggio di quello che con tutta la crisi resta il più bel festival di cinema in Italia, ovvero il FEFF!!! 
Anche quest’anno Alabama inviata non richiesta (qui la cronaca del viaggio), anche quest’anno un totale di 14 film visti (in 3 giorni) ma sono riuscita a scampare la notte al pronto soccorso non rompendomi nulla! Un evviva per me che ho imparato a salire le scale! 
Purtroppo va detto che la mia impressione generale, rispetto al festival, non è stata delle più positive. La crisi la crisi, c’è la crisi pure nei festival, e quindi un numero inferiore di film proposti, a volte più di un titolo dello stesso regista (cosa veramente da non fare, secondo me) e soprattutto una qualità non eccezionale come sempre, ma soltanto “buona”. Uno al FEFF solitamente si aspetta di urlare in sala, spellarsi le mani e uscire gridando di aver visto il film più bello del millennio (questa è l’aspettativa minima), cosa che purtroppo quest’anno non è successa. 
E vabbè. L’amato FEFF resta l’amato FEFF, andiamo a incominciare!
DANGEROUSLY EXCITED
di Koo Ja-Hong, Corea, 2011
Diciamo che già non parte benissimo in quanto il regista stesso, presente in sala, lo annuncia come un film low budget, girato senza troppe aspettative, scusate se esisto torno a pelare patate in Corea. Tesoro mio, se tu sei così entusiasta figuriamoci noi spettatori… E in effetti è proprio così, un budget decisamente troppo basso e quasi nessuna idea fanno di questa commedia un film abbastanza dimenticabile. Un impiegatuccio soddisfatto della sua vita la vede stravolta a causa di una band rockeggiante che si installa nella sua cantina per provare. Lui resta coinvolto, prima non gli va, poi sì, poi crisi, poi di nuovo sì, poi suonano insieme, evviva. Solo che per tutto il film parlano, parlano parlano come se non ci fosse un domani, ma solo perché evidentemente parlare davanti alla cinepresa costa meno che fare altro. 
 
THERMAE ROMAE
di Hideki Takeuchi, Giappone, 2012
Attesissimo. Ce ne sarebbe da dire su un kolossal di questo tipo. Cominciamo col dire che è tratto dal manga omonimo, pubblicato anche in Italia, ambientato tra il Giappone moderno e l’antica Roma (!). Continuiamo dicendo che questa di Udine era la prima mondiale (infatti c’era il regista in sala) e che subito dopo è uscito in Giappone e finora ha incassato tipo 50 milioni di dollari (tanto). Finiamo dicendo che è stato girato a Cinecittà (!!) e che ho beccato tra le comparse uno che studiava giapponese con me (!!!). 
L’idea di fondo è carina, ovvero la passione che lega tanto il popolo giapponese quanto quello della Roma antica per i bagni pubblici, ovvero le terme. È vero! Chi ci aveva mai pensato?? Lo svolgimento è di una demenza che sfiora il surreale, quindi spesso divertente ma a volte imbarazzante. Il protagonista è Lucius, un antico romano (interpretato da un giapponese!! Il bonazzo Hiroshi Abe) che risucchiato in una vasca termale finisce nel Giappone moderno. Da qui carpisce i segreti dei bagni moderni (dalla carta igienica alla Jacuzzi) e li trapianta a Roma, diventando l’architetto favorito dell’imperatore. Fin qui sarebbe soltanto GENIALATA, ma in seguito il film si incarta sulle imprese dell’imperatore, le faide interne, Lucius che deve salvare l’impero, ecc. e perde la brillantezza della prima parte. Come puoi passare dai cessi all’impero?? Dovevi restare sui cessi! Menzione speciale alla sezione “lingue”. Gli antichi romani parlano in giapponese fra loro ma quando viaggiano nel tempo in latino (!). Lucius si innamora di una giapponese moderna, che capisce l’inghippo temporale e per poter parlare con lui si compra un manualetto di latino e impara a parlarlo (certo, come no!). A un certo punto compare la scritta “bilingual” e tutti parlano solo in giapponese (per evitare di sottotitolare il latino, immagino…). Le didascalie sono in latino e fanno troppo ridere: ALIQUANTO POST sarebbe “qualche tempo dopo”. Tutto questo contribuisce al delirante mischione finale, che però non soddisfa in pieno le aspettative.
NIGHTFALL 
di Roy Chow, Hong Kong, 2012
Santoddio. Ecco, questo è quello che speri di NON incontrare mai al FEFF. Un poliziesco torbido e incomprensibile, pieno di buchi di sceneggiatura e con spiegoni finali che si ripetono tre volte per essere sicuri che tu spettatore hai capito proprio tuttotuttotutto. In pratica c’è uno che esce di galera muto e sfregiato e si mette a pedinare una famigliola. Il padre della famigliola muore assassinato e questo si prende la colpa, ma la colpa non è sua, bensì della moglie, che voleva proteggere la figlia. Ma la figlia non è la figlia vera di quello morto, bensì dello sfregiato, e la madre allora chi era? Non mi ricordo. Due palle così e se ci facevano una puntata di Distretto di Polizia era meglio.
LOVE STRIKES!
di Hitoshi One, Giappone, 2011
Altro film giapponese (ne ho visti un botto quest’anno) che poteva decollare e invece non mi ha decollato. Mannaggia. Comincia come una commedia abbastanza demenziale con protagonista un trentenne “second virgin” (che da quanto ho capito significa che hai fatto sesso UNA SOLA VOLTA IN VITA TUA e quindi è come se la seconda fossi di nuovo vergine, perché a stento ti ricordi come funziona…) molto nerd e molto otaku, che si apre un account su Twitter e per magia rimorchia. Ah, i tempi moderni! Rimorchia una nerdona come lui, però chiaramente figa e disinibita (certo, tutte così le nerd) e già fidanzata. Comincia il tiraemolla, prima amiconi, poi no, lui si dichiara, lei ci sta, poi no, poi salta fuori che il ragazzo di lei è sposato (!) ma lui intanto si è scopato un’amica di lei, però è sempre innamorato dell’altra e blablabla. Il punto è che comincia benone, con un discorso secondo me interessante sulla generazione degli “otaku cresciuti”, ovvero: quelli che leggevano fumetti e avevano i blog a trent’anni che fine fanno? La fine di Alabama. Credo sia uno spinoso problema della società giapponese, che sugli otaku (cioè i nerd) ci ha costruito un impero, per poi ritrovarseli sul groppone, imbarazzati, impediti, frustrati, socialmente inetti, lavorativamente inutili. Il film tenta di esplorare il tema, con largo utilizzo di Twitter annesso, solo che poi la piega del polpettone sentimental(oide) si fa troppo pesante e annoia. Peccato.
RENT-A-CAT
di Naoko Ogigami, Giappone, 2012
Il film gattofilo della regista di Toilet (visto al Festival di Roma nel 2010) riempie la sala. La Ogigami è maestra nel raccontare piccole storie di personaggi strampalati, e anche qui non fa eccezione, dipingendo una sorta di Amélie Poulain giapponese che vive circondata da gatti e per dare felicità al prossimo… li noleggia. Cammina lungo il fiume con un carretto pieno di gatti e un megafono urlando RENTAAAAANEKO! (ovvero gatti in affitto) e incappa in personaggi altrettanto strambi. Una vecchina che sente la mancanza del suo gatto ormai trapassato, un signore che vive lontano dalla famiglia ed è stufo di stare da solo, una ragazza che lavora in un’agenzia. Sayoko, la protagonista, celebra un “gattara way of life” fatto di cuteness e malcelata solitudine, affigge cartelli di buoni propositi sul muro (“Quest’anno mi voglio sposare”) e inventa modi originali per stendere i panni in casa o mangiare gli spaghetti. È un personaggio che colpisce a fondo, interpretato dalla stralunata Mikako Ichikawa, davvero perfetta per il ruolo, specchio anch’esso di una condizione odierna non insolita. 
MOBY DICK 
di Park In-Jae, Corea, 2011
Complicatissimo ma avvincente questo thrillerazzo ambientato in una Seoul del 1994, in cui una task force guidata da un giornalista indaga su un’autobomba servendosi di informatori segreti e spirito d’iniziativa. Della trama purtroppo ricordo ben poco, perché come già detto complicatissima, ma la cosa stupefacente è che ambientare il film nel 1994 vuol dire fare una crime story senza internet né cellulari!! Che coraggio! Gente che telefona dalle cabine e fa le ricerche negli archivi veri (di carta). Eppure tutto fila liscio, ognuno fa il suo dovere, l’investigazione sfocia nella teoria della cospirazione dei potenti (il Moby Dick del titolo, che compare in sogno al protagonista in una scena magistrale), uno dei buoni ci rimette le penne, le macchine esplodono e gli inseguimenti si susseguono, fiato sospeso fino alla fine, gran film.

(solo perché non è tanto il mio genere, sennò anche 5 ci stava)
ROMANCING IN THIN AIR
di Johnnie To, Hong Kong, 2012
Ecco, anche questo è stato uno dei pezzi forti del festival, molto atteso sia perché è IL NUOVO FILM DI JOHNNIE TO!! sia perché Johnnie To in persona era lì in sala. Grande ovazione e consegna del premio alla carriera, mezz’ora di discorso della direttrice del FEFF per poi sentirsi rispondere solo “Grazie. Tornerò.” E BASTA. Johnnie caro, certo che tornerai, ti pagano volo, albergo, pranzi, cene e colazioni, vorrei ben vedere! Qualcosa di decente da dire te lo potevi pure preparare però! 
Come si sarà evinto, non sono una grande fan di To, più per semplice ignoranza che per altro. Shame on me, non so a memoria tutti i suoi film. Va comunque ricordato che è il responsabile del rinnovamento del cinema di Hong Kong degli anni Novanta, rinnovamento che scatenò all’epoca ondate di amore incondizionato verso il “cinema di Hong Kong” (soprattutto noir) da tutti gli angoli del globo. Amore che dura ancora oggi, quindi onore al merito. Questo suo ultimissimo film non è un noir ma un sentimental-drama piuttosto denso, seppur con qualche svarione. 
In breve (?), un famoso attore cerca di sfuggire ai paparazzi che lo martellano per il fallimento del suo matrimonio (fallito proprio sull’altare) e si rifugia in un albergo perso tra i monti altissimi dello Yunnan, regione cinese. Qui conosce la proprietaria e se ne innamora, ma lei nasconde un triste retroscena. L’amato marito è disperso nei boschi da sette anni e lei vive con questo peso sul cuore e la speranza che da qualche parte egli sia ancora vivo. Ma è anche una grande fan dell’attore e dunque alla fine, pensa che ti ripensa, decide di cedere alle sue avances. Senonché colpo di scena! Il marito viene ritrovato, morto da poco al limite della foresta (quindi poco prima di riuscire a tornare a casa). Grande crisi e non se ne fa più nulla. L’attore però, rimasto colpito dall’intera vicenda, decide di trarne un film interpretato da lui stesso. Ed è subito metacinema a go go. Viene girato il film del film e lei lo va a vedere, finché poi… Il romance si fonde bene con il melò e la commedia, gli attori sono tutti bravissimi e la protagonista è davvero gnocca. Peccato per qualche incongruenza (tipo: come si fa a sopravvivere per sette anni nei boschi gelati a un milione di metri di altezza?! Mangiando legnetti?! Boh).

La mattina del Giorno 3 non c’è nulla di interessante, quindi decido di recuperare dei film in saletta media, dove dei Mac sono a disposizione dei giornalisti (che io non sia giornalista è cosa nota, ma non vi fate domande). 
In saletta, con le cuffie, appollaiata su una sedia, mi vedo i primi due film della giornata.
RIVER
di Ryuichi Hiroki, Giappone, 2012
Uno strano film che prende ben più che uno spunto da un fatto di cronaca realmente avvenuto. L’8 giugno del 2008 un pazzo prende a noleggio un furgone e lo lancia in mezzo alla folla nel bel mezzo dell’affollatissimo quartiere geek di Akihabara a Tokyo, poi scende e comincia a menare coltellate, uccidendo sette persone e ferendone altre diciotto. L’opinione pubblica è sconvolta. Considerando che è il giorno del mio compleanno e all’epoca mi trovavo in Giappone (non a Tokyo) diciamo che lo ricordo abbastanza bene anch’io (fatevi i fatti di Alabama! Su C&B!). La protagonista del film ha perso il fidanzato proprio in quella tragica occasione e dopo aver passato anni reclusa in casa passa le sue giornate a camminare su e giù per Akihabara, cercando forse tracce dell’amato. Il regista la segue da dietro, camera a mano e atmosfera rarefatta, in un percorso quasi onirico che la porta a incontrare strani personaggi, tra cui un amico del suo ragazzo morto. Gli attori sembrano non recitare, la regia è invisibile e si direbbe quasi più un documentario che un film (se non fosse che ci sono gli attori e non le persone reali). Il discorso realtà/finzione è affrontato su diversi piani, fino a toccare perfino la tragedia dell’anno scorso, lo tsunami che ha devastato la regione del Tohoku e che ha lasciato un segno indelebile nella psiche di tutti i giapponesi, come e più del massacro di Akihabara. Peccato per quel tantino di noia che sopraggiunge a un certo punto, con tutto che il film dura solo 89 minuti. 

(ma ripensandoci gli darei 4)
THE WOMAN IN THE SEPTIK TANK
di Marlon Rivera, Filippine, 2011
Oh, questo l’ho visto perché devo sempre vedere almeno un film di una cinematografia completamente aliena, in questo caso filippina.
Mi sa che era meglio se sceglievo Taiwan o Malesia, perché questa donna nella fossa biologica non era sto granché. Trattasi di uno pseudo-mockumentary che prende in giro il “poverty porn” cioè l’indugiare su baraccopoli, pedofilia, miseria assoluta, bambini denutriti, da parte appunto di quelle cinematografie che non possono permettersi, evidentemente, sceneggiatori migliori e finiscono con lo sfruttare bassamente le tragedie della propria terra e spettacolarizzare il dolore pur di fare cassa. I protagonisti sono alle prese con il loro primo film, in cui una donna vende la figlia a un vecchio pervertito per dare da mangiare ai suoi mille fratelli, e cercano sponsor e grandi attori. La donna nella fossa biologica del titolo è la grande attrice che dovrebbe interpretare la protagonista (anche qui film nel film, il metacinema in Asia va alla grandissima), che nella scena clou cade in una fogna, sinonimo (velatissimo) del toccare il fondo. Lo spunto è anche carino ma il film (quello vero) è a budget davvero troppo low, le idee sono solo accennate e mal realizzate e si vede che intere scene sono solo chiacchiere in campo/controcampo girate per risparmiare sugli esterni. Troppe chiacchiere, e se non sei Tarantino non puoi permettertelo. Da segnalare però la lingua filippina, un esilarante mix di inglese, spagnolo e giapponese, secondo me varrebbe la pena studiarlo (facciamo nella prossima vita).
THE GREAT MAGICIAN
di Derek Yee, Hong Kong, 2011
Un curioso pasticcio, che parte in un modo e poi diventa proprio un altro film, lasciandoti attonito a pensare “ho sbagliato tutto io o ha sbagliato tutto il regista?”.
In un’epoca non specificata, un grande illusionista arriva in città e attira l’attenzione del signorotto di turno, guerrafondaio e donnaiolo. In realtà il mago (un Tony Leung sempre bello ma dannatamente sprecato) vuole solo liberare la sua ex, ora concubina del signorotto. Da serio dramma bellico e sentimentale però, senza nessuna plausibile ragione, il film a metà cambia rotta e diventa una commedia quasi demenziale, coi due che fanno amicizia e si alleano contro un ulteriore nemico. Un mischione senza senso, che dura pure 128 minuti e alla fine non puoi credere di averli buttati in quel modo.
SONG OF SILENCE di Chen Zhuo, Cina, 2012
Un’adolescente sordomuta vive in un piccolo villaggio sul mare, sballottata tra una madre apprensiva e un padre che non la ama, uno zio fin troppo premuroso e un nonno protettivo. Va a vivere con il padre quando la compagna di quest’ultimo, di pochi anni più grande di lei, resta incinta, e l’attrito iniziale tra le due ragazze diventa a poco a poco solidarietà. Un’opera prima a dir poco incredibile, che da una trama banale riesce a tirare fuori una storia suggestiva e intensa, girata con maestria e con delle attrici da far girare la testa. La schiva e problematica protagonista, innamorata dello zio che la ricambia e che sconvolge la sua già fragile vita. La compagna di suo padre, una musicista ribelle poco paziente e poco incline alla vita di campagna. La madre che non sa che pesci pigliare. Il padre infantile e inadatto a gestire queste donne complicate. Un cast perfetto, capace di rendere memorabile un film che altrimenti sarebbe stato solo “poverty porn”, per citare uno dei temi cari al festival quest’anno. 
SUKIYAKI
di  Tetsu Maeda, Giappone, 2011
Commedia culinaria molto divertente, che sfrutta a piene mani la vera e propria ossessione che i giapponesi hanno nei confronti del cibo.
Quattro carcerati in cella prima del pasto di capodanno, il più prelibato dell’anno, si raccontano episodi memorabili della loro vita legati al cibo, in una gara che premia la storia migliore con cibo extra da rubare nei piatti altrui. Chi racconta del ramen (zuppa con spaghettini e carne) preparato con amore dalla sua ragazza, chi del riso e uova mangiato l’ultima volta a casa della madre, chi di enormi budini a forma di tette cucinati da una premurosa ristoratrice. Gli stilemi della commedia giapponese sono sempre quelli, personaggi che fanno buffe smorfie da manga, un tocco di demenzialità, buoni sentimenti a palate, cuori infranti e ricerca di riscatto, ma la vena ironica e soprattutto autoironica rende il tutto piacevole e mai stucchevole. L’ossessione per il cibo rende quest’ultimo il vero protagonista e vi assicuro che siamo usciti dalla sala con la bava alla bocca. 


THE EGOISTS
di Ryuichi HIroki, Giappone, 2012
Visto in saletta anche questo, è l’opera fiume dello stesso regista di River, 136 minuti di drama, action, melò, thriller, romance. Ecco diciamo che ridurre il minutaggio avrebbe giovato. È la storia tormentata di due giovani innamorati, lui gangster da quattro soldi, indebitato con il capo e succube del padre, lei ballerina di lap dance senza molte prospettive se non vivere di amore e speranza. Anche qui, il tema è già abbastanza abusato, e non c’è bisogno di ripetere gli stessi concetti per 136 minuti. I due tentano la fuga una prima volta ma le cose vanno male. Ma decidono di riprovarci e quindi dopo un’ora il film ricomincia praticamente da capo, stavolta con il matrimonio. Le stesse situazioni si ripetono e l’impressione è più quella di un film per la tv, pieno di parti inutili tranquillamente sforbiciabili in fase di montaggio, che quella di una vera e propria epopea della tragedia. Non fare l’epopea se non sei in grado. I giapponesi poi dovrebbero sempre tenere sotto controllo il minutaggio, perché difficilmente quando sforano i 100 minuti fanno qualcosa di buono. Un film così esiste, credo che il regista l’abbia anche visto, e si chiama True Romance, firmato da Questin Tarantino. Ora, io non mi voglio ripetere, ma se non sei Tarantino non fare Tarantino. Non ci provare proprio. Da segnalare però la colonna sonora, di cui ho anche recuperato un paio di brani bellissimi.
PUNCH
di Lee Han, Corea del Sud, 2011
Grazie al cielo il festival per me si chiude con un film che mi è piaciuto moltissimo, inaspettatamente. La storia di un liceale povero che vive con il padre, un nano che fa spettacoli di strada, e decide di dedicarsi alla boxe su suggerimento del suo professore nonché vicino di casa, con cui ha un rapporto di amore/odio. Ambientato negli slum di Seoul, poteva essere anche questo l’ennesimo tentativo di spettacolarizzare la povertà ma il regista dribbla il pericolo mettendo in campo una robusta dose di ironia, dei comprimari sublimi (su tutti il vicino di casa incazzoso e molesto che alla fine si rivela un pacioccone) e una storia corale da cui gente come Ozpetek, per dirne uno, dovrebbe solo imparare. Sui tetti delle catapecchie di Seoul si intrecciano love story e litigi, introversioni e amicizie, problemi esistenziali ed economici. Il rapporto tra alunno e professore è umanissimo e complesso, come complesso è il rapporto che lega il ragazzo ai genitori, un padre storpio e apprensivo e una madre filippina scomparsa da tempo e ritrovata per caso. I buoni sentimenti rivelati non sono mai banali ma sempre sviscerati e descritti con accuratezza e strappano più di un sorriso e più di una lacrima. 
Il palmarès non lo metto, ma dico solo che sia il Gelso d’oro (voto del pubblico) che il Gelso nero (voto degli spettatori con l’accredito fico Black Dragon) è andato al coreano Silenced, storia ispirata a un fatto vero di cronaca (daje) in cui si narra di abusi su classi di ragazzini non udenti e conseguenti processi penali. 
Diciamo che mai come quest’anno il rischio di sfruttare bassamente il dolore è stato alto, ma a quanto pare il FEFF ne esce sempre alla grande. Lunga vita al FEFF e all’anno prossimo! 
[ Alabama ]

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