The Jinx - The life and death of Robert Durst
Trama: Robert the nero
The Jinx è, niente di meno, un documentario perfetto. In forma di serial TV.
Perché questa dichiarazione altisonante? Per tanti motivi, profondissimi e indiscutibili.
The Jinx prima di tutto fa quello che ogni documentario dovrebbe fare: dimostrare che la realtà, a volte, supera di gran lunga qualsiasi film, che la realtà è regina, che ogni film esiste solo perché figlio di una realtà (sì, anche Harry Potter.)
Esplora poi una storia di cronaca che davvero più interessante non si può, fatta di omicidi e misteri, di personalità multiple e uniche, di accadimenti avvolti dalla più densa nebbia, e al tempo stesso lampanti come illuminati dal sole a due metri, e con un protagonista che neanche le menti di Edgar Allan Poe, Alfred Hitchcock e Thomas Harris a sei mani avrebbero potuto scrivere: il multimiliardario Robert Durst (non andate subito a wikipediare che ora vi racconto).
Infine, e qui ci mette lo zampone quello che potremmo chiamare Destino (o fortuna, in opposizione al titolo, letteralmente "La sfiga"): durante le sei puntate del serial realtà e film si mischiano, una alimenta l'altro proprio mentre il regista lo compone, è una storia in divenire, anzi è la realtà che per prima chiede che questo documentario sia realizzato e poi lo alimenta con incredibili svolte e turning point che neanche Sciemolan, fino alla sorpresa finale.
Ma ricominciamo dall'inizio, quasi fosse un Lucarelli qualunque a raccontare la vita di Robert Durst.
Rampollo della più facoltosa famiglia di "palazzinari" newyorkesi (ed essere venditori di case a NY vuol dire vendere i grattacieli, vuol dire i miliardi che non puoi spendere neanche se sei immortale), Robert cresce nell'opulenza più sfrenata e nella felicità. Fino alla sera in cui il padre lo sveglia di notte e lo porta alla finestra a "vedere la mamma". Il piccolo Robert di affaccia e vede la madre sul ciglio di una balaustra, sul tetto della magione, che (sonnambula? ubriaca? drogata?) si getta e si schianta sul vialetto di casa, proprio tra la Rolls e la Spider parcheggiate di sotto.
Un trauma del genere (e un padre del genere) copre il piccolo Robert di uno spesso strato di tristezza, sotto cui inizia a maturare una personalità borderline, nascosta però dentre vestiti su misura e studi nelle migliori università.
È proprio all'università che conosce, per poi sposarla, la bella Kathleen. I due vivono felici, tra case al mare e foto di famiglia in cui Robert appare sempre con uno sguardo che definire ferino sarebbe un eufenismo.
Una sera Kathleen prende il treno dalla casa al mare per tornare nella city, e sparisce. Il caso fa il giro del mondo e Robert, il primo e unico sospettato, viene prosciolto da tutte le accuse per mancanza di prove (e di cadavere. e di arma del delitto. e di lugo del delitto. insomma, "potrebbe essere semplicemente scappata" come lui insiste a dire...).
Nonostante la copertura mediatica impressionante, la storia viene dimenticata, come ogni caso di cronaca nera, meglio dimenticare.
Fino a quando, molti anni dopo, viene ritrovato (grazie ad una lettera spedita alla polizia) il cadavere di una donna uccisa.
La donna si chiama Susan ed è la migliore amica di Robert Durst. Quel Robert Durst.
La donna si chiama Susan ed è la migliore amica di Robert Durst. Quel Robert Durst.
Ancora una volta la giustizia e i media si riattivano, scatenano, eccitano, ma di nuovo Robert la fa franca, e di nuovo tutti dimenticano.
Fino a quando, in un fiume di Galverston, Texas, vengono ritrovate delle sacche nere di plastica che contengono un torso umano, delle braccia, delle gambe (mai la testa):
quel cadavere straziato era stato, fino a pochi giorni prima, il vicino di casa di una donna muta che viveva sola e frequantava quella casa a mesi alterni. Investigando la polizia scopre che quella donna non era muta, anzi, non era neanche una donna: era Robert Durst.
quel cadavere straziato era stato, fino a pochi giorni prima, il vicino di casa di una donna muta che viveva sola e frequantava quella casa a mesi alterni. Investigando la polizia scopre che quella donna non era muta, anzi, non era neanche una donna: era Robert Durst.
Mi fermo qui, perché potrei raccontarvi tutta la storia e vi rovinerei la visione.
Passo invece a quello che di incredibile ha The Jinx, e cioè la sua lavorazione e la sua genesi.
Voi forse non vi ricordate, come non ricordavo io, di un film col nostro amato portatore di sguardling Ryan Gosling. Il film si chiama All Good Things, ed è, guarda caso, anche su CB, QUI. La storia del film è quella di Robert Durst. Non avevo collegato, non ricordavo, non so, non rispondo. Non mi era neanche particolarmente piaciuto, infatti lo avevo bollato non senza una certa supericialità come un malriuscito Mommy Thriller, mentre ora ho una gran voglia di rivederlo.
A Robert Durst invece il film piacque, tanto che, una volta uscito dal cinema, telefonò al regista del film per proporre di organizzare un'intervista filmata in cui finalmente avrebbe potuto raccontare la sua storia (a 30 anni dal primo caso, 20 dal secondo, 15 dal terzo); la mania di protagonismo di Durst serpeggia inesorabile per ognuno dei sei episodi, sembra a volte che stare sotto i riflettori e sulle prime pagine, anche se come mostro sbattuto lì, sia la sua unica ragione di vita.
Stacco: il regista del film riceve la telefonata. Non crede alle sue orecchie. Dall'altra parte del telefono c'è un presunto serial killer, che lui ha raccontato nel suo film.
Quel regista si chiama Andrew Jarecki e - come spesso accade per i registi di documentari - ha realizzato quel film di fiction, ma è famoso per altro, è stato candidato anche all'oscar per altro, precisamente per quel capolavoro di investigazione sempre sospeso tra colpevolismo e innocentismo che è Capturing the Friedmans (che, guarda caso, è pure lui QUI).
Ora immaginiamo cosa può aver significato per un uomo che ha appena girato (con piglio documentaristico, senza pendere tra "è stato lui" e "non è stato lui") un film su un presunto pluriomicida, ricevere quella telefonata. Io personalmente avrei attaccato, rialzato subito la cornetta, e prenotato un biglietto solo andata per il più remoto geyser islandese.
Invece Jarecki accetta e inizia il suo documentario su Robert Durst, questa volta senza Gosling, ma con il vero Robert Durst.
Le sei puntate raccontano tutto, mostrano tutto, questa volta Jarecki ha accesso ai filmini di famiglia di Robert (è sempre fortunato Jarecki, a trovare famiglie con la passione dei filmini, oppure è solo magistrale nell'utilizzo dei filmati d'epoca), ha il diretto interessato davanti, e inizia la sua personale investigazione.
Intervista parenti, amici delle vittime, poliziotti e avvocati e soprattutto intervista Robert. E quello che succede è al di fuori di ogni speranza anche del più inventivo dei filmaker.
Vi basti sapere che il caso di Robert Durst, dopo che il serial è andato in onda, lo scorso marzo, è stato riaperto.
E, almeno personalmente, la sensazione di fusione tra realtà, finzione, documentario, dramma, aumentava quando pensavo che tutta la storia mi era già passata sotto gli occhi, via film, e, come molti altri nei confronti di Durst o in generale dei fatti di nera che come vengono, destano scalpore, poi passano (e gli assassini poi si iscrivono a Tinder, per dire), e quanto più aumentava quella sensazione, più aumentava il trasporto per The Jinx.
Ora, vedere The Jinx, oltre ad essere una delle cose migliori a livelli filmico di quest'anno, è anche un'incredibile dimostrazione di come un serial investigativo dovrebbe essere, quello che è tenuto a fare: tenerti sulle spine, raccontarti e celarti, farti investigare, dedurre, speculare, sbagliare, gridare "eureka" quando scopri il dettaglio che inchioda l'assassino.
Tutto quello che non fa la nuova stagione di
True Detective - Season 2
Trama: Forgettin Carcosa
5 episodi visti. poco meno di 5 ore di noia totale. 4 protagonisti scialbi e verbosi, banali e piatti. Capacità recitative neanche così assenti, ma tutto già visto, tutto già sentito, tutto già fatto. E quando a farti una filippica filosofica ci sta Matthew McConaughey è un conto, quando ci sta Vince Vagon non solo non è lo stesso campo da gioco, non è neanche lo stesso sport.
La seconda serie di veri detective sta dimostrando la netta sensazione che si era stratificata sotto tutti i gridolini "capolavoro", "geni", "miglior serie dell'universo totale" durante la prima, e cioè che fosse un grandissimo bluff, in cui una storia già vista in molti altri film e una sceneggiatura logorroica erano mistificate da grandi interpretazioni (e grandissime tette). Sfido chiunque a farsi appassionare da questo caso, un mistero che un qualsiasi film ambientato a LA con poliziotti (Vivere e morire a Los Angeles anyone?) o con un caso di omicidio violento (Manhunter - Frammenti di un omicidio arianyone?) non abbiano già rappresentato 30 anni fa e 30 volte meglio.
Ancora tre episodi, e credo diremo addio a True Detective, probabilmente per sempre.
Il caso investigativo è in completa confusione e non all'altezza dei predecessori neanche lontanamente anche come relazioni, i personaggi sono anemici e i loro fantasmi interiori dei grandi scassacazzi, gli attori che li interpretano assolutamente intercambiabili (soprattutto Kitsch e McAdams, non basta fare uno sguardo torvo per rendermi l'inferno dell'anima).
E per ora neanche una scena come il bellissimo piano sequenza che risollevava la prima serie. E neanche una tetta.
Anche la sigla è peggiore della prima:
e la canzone scelta, bella per quel minuto risicato, rivela, proprio come il serial, una certa lungaggine quando ascoltata tutta
(Ma quegli urletti arabi?! Non ce ne volere Leonard...).
L'unica cosa davvero bella sono i motion poster. Oltre a quello sopra ci sono questi due.
Certo, se poi mi fate vedere bene le tette di Kelly Reilly potrei ricredermi.
La seconda serie di veri detective sta dimostrando la netta sensazione che si era stratificata sotto tutti i gridolini "capolavoro", "geni", "miglior serie dell'universo totale" durante la prima, e cioè che fosse un grandissimo bluff, in cui una storia già vista in molti altri film e una sceneggiatura logorroica erano mistificate da grandi interpretazioni (e grandissime tette). Sfido chiunque a farsi appassionare da questo caso, un mistero che un qualsiasi film ambientato a LA con poliziotti (Vivere e morire a Los Angeles anyone?) o con un caso di omicidio violento (Manhunter - Frammenti di un omicidio arianyone?) non abbiano già rappresentato 30 anni fa e 30 volte meglio.
Ancora tre episodi, e credo diremo addio a True Detective, probabilmente per sempre.
Il caso investigativo è in completa confusione e non all'altezza dei predecessori neanche lontanamente anche come relazioni, i personaggi sono anemici e i loro fantasmi interiori dei grandi scassacazzi, gli attori che li interpretano assolutamente intercambiabili (soprattutto Kitsch e McAdams, non basta fare uno sguardo torvo per rendermi l'inferno dell'anima).
E per ora neanche una scena come il bellissimo piano sequenza che risollevava la prima serie. E neanche una tetta.
Anche la sigla è peggiore della prima:
e la canzone scelta, bella per quel minuto risicato, rivela, proprio come il serial, una certa lungaggine quando ascoltata tutta
(Ma quegli urletti arabi?! Non ce ne volere Leonard...).
L'unica cosa davvero bella sono i motion poster. Oltre a quello sopra ci sono questi due.
Certo, se poi mi fate vedere bene le tette di Kelly Reilly potrei ricredermi.
Nessun commento:
Posta un commento