lunedì 10 giugno 2013

Toretto Style

Fast & Furious 6
Trama: Brum.

EHI! VI RICORDATE QUEL CIEBBI CHE SI SENTIVA TANTO INTELLIGENTE A SCRIVERE TUTTE LE COSE FORBITE DEI FILM DI NIENTE E DI NULLA E DI BOH O SUL SIGNIFICATO INTRINSECO ED ESTRINSECO DEL CINEMA E CHE NON C'AVEVA CAPITO MANCO LUI QUELLO CHE STAVA SCRIVENDO? 
Dai, il Ciebbì di una settimana fa!
Ecco, scordatevelo perché infatti siccome che c'era il rischio che magari qualcuno poteva pure pensare che le cose scritte erano addirittura intelligenti, allora nel weekend il buon Ciebbì è andato a farsi fare una bella lobotomia, quelle vecchio metodo col punteruolo nell'occhio e il martelletto! Ed è tornato quello di una volta, quello di DUE settimane fa, quello che si vede Fast & Furious 6 e si gasa e va a ripescare le Hot Wheels e le MicroMachine e mette su tutta una corsa pazzesca! Quello che avete imparato a compatire amare. Perché le macchine che fanno BVROOOOOOOOM sono fichissime e basta! 
Tipo questa pubblicità qui:
Ma la cosa ancora più bella è che le macchine di grossa cilindrata le guidano persone di cilindrata ancora più grossa! E infatti ecco che al sesto capitolo di Veloci e Furiosi ci stanno ancora più muscoli de prima. 
E allora arriva Tyrese che vola (che ti pensavi che le persone non volavano? In F&F6 sì)
e spacca tutte le robe!
Ma poi arriva Vin Diesel (è un diesel?!) e spacca ancora di più le robe che aveva già spaccato Tyrese e lo fa tenendo tutto tutto il tempo le braccia incrociate!
E poi arriva The Rock! And it's only The Rock but i like it! E The Rock allora arriva e spacca ancora di più le robe che avevano già spaccato Tyrese e Vin Diesel! Proprio le polverizza!
E poi arriva Paul Walker. E niente. Arriva e dice "ehy cacchio ragazzi, non trovo più tutte le robe mie, che l'avete viste?"

E poi comunque per superare l'empasse di dire a Paul Walker che è uno sfigato arrivano delle donne, che in F&F non è che sono donne normali, no, sono donne che o sembrano uomini (che già c'era Michelle Incazzata Rodriguez, ci serviva pure la Carano:

o donne che se vogliono fanno i fanali posteriori. Popi Popi.
Ma la cosa bella è che ormai F&F è una cosa che puoi andare sul sicuro, sicuro come la morte che ti gasi, che vedi cose che neanche in Harry Potter vs Superman in quanto a magia e superpoteri, ma non te ne frega niente proprio, anzi!
E poi comunque vaglielo dire tu a Vin Diesel e The Rock che magari il loro film non è proprio, come dire, un film legato ad una qualche veridicità, ma non di questo mondo, ma manco su un pianeta di tre galassie accanto. Tipo non è che puoi metterti lì a fare il fisico o il matematico della situazione e dire che magari le cose che fanno sono un'antichietta, ma proprio un tantinello, fuori dalla regole che dominano il nostro mondo, tipo quelle cose inutili come la forza di gravità o l'anatomia umana.
Invece pensa che qualcuno l'ha fatto per davvero, qui; capito 'sti matti sono andati a suonare a casa di Vin Diesel e The Rock e hanno fatto presente che per fare la scena della cassaforte nel 5 ci servivano 467 macchine invece di 2, e poi il giorno dopo sono andati di nuovo e hanno portato questo grafico che illustra la scena finale (gasantissima) di questo capitolo 6:
...che dimostra che la terra di F&F è come il campo da calcio di Holly & Benji, spaziotemporalmente flessa.
E ora Vin e Rock usano il loro teschi come tamburelli al mare.
Comunque sticazzi di cose inverosimili come gli uomini volanti e le macchine volanti e le donne al volante, io so solo che ti gasi (un pochino meno del #5 in effetti), dai gas sul gasarti, e quando poi arriva la fine, proprio la scena finale, e scopri con sorpresa chi ti ritroverai in F&F 7, ecco lì proprio gridi WROOOM! Arriverà lui

capito chi?
F&F 6 è fichissimo. Niente altro da dire. E se lo dico io che ho visto il Niente. D'altronde non puoi guardare negli occhi il niente senza che il niente guardi te. Vero Vin? Altro che Jey, Jep e Marcello, è Vin il vero detentore del Nulla più totale: guardarlo negli occhi per credere
Quando si dice Win/Vin Situation. Come queste matrioske. che sono credo le foto delle patenti di Vin e The Rock


Poi anche l'animazione digitale si è accorta di quanto ci si gasa con le macchine che fanno BRUM!

Peccato che 'sta lumaca farà schifissimo. 

venerdì 7 giugno 2013

♰ Esther Williams ♰

♰ Esther Williams ♰
Sirena
Esther Williams, Tom and Jerry

Inglourious Actors

Vogliamo vivere! 
Trama: Vogliamo vèdere! aka To see or not see
Non è facile essere uno spettatore oggi.
Siamo abituati a vedere film, viviamo di film, mangiamo film colazione, pranzo, cena e spuntino notturno, ma quanti film belli, per davvero Film, vediamo? Pochi. 
Io personalmente poi, ancora meno.

Mettiamola così: ci sono delle volte che vedi un film e capisci, profondamente, perché Ami il Cinema. Succede pochissime volte, ma è grazie a quelle volte che ti si ricarica completamente un sentimento che spesso diventa solo un generico "mi piace il cinema"; mentre, quando appunto vedi quel film, si risveglia davvero la Passione, l'Amore, e la sensazione diventa più un "Il Cinema è Tutto".
Ammettiamolo, il cinema, se ti ci soffermi un attimo, è quella cosa che tra un intrattenimento e un piantarello, tra una risata e una "gasata", alla fine ti accompagna sempre; magari a tipi come me di più, ad altri di meno, e sono differenze non necessariamente classiste, solo questioni di modalità. C'è chi seleziona accuratamente, chi è onnivoro, chi monotematico, chi generalista, chi distratto, chi concentrato, ma tutti noi, in una modalità o nell'altra, i film ce li vediamo. 
Eppure in questa gigantesca pasta per pizza - non chiedetemi perché ma mi è venuto in mente l'impasto per fare la pizza, quando parlo di cinema. bah. - noi ci perdiamo il Meglio. Ci perdiamo per strada il Concetto di Cinema, confuso nel pastrami - arisdinghe. l'asociazione cibo/cinema forse non è casuale - formato (anche sformato) di tutto quello che vediamo. E attenzione, non intendo dire che vedendo solo film brutti (muovo il ditino in cerchio) allora perdiamo il gusto per quelli belli, no no, io dico che anche vedendo solo film mediamente belli, comunque ci allontaniamo dal cuore, dall'atomo primario, dal nucleo reale della frase "Amo il Cinema". Perdiamo il lumino che brilla nel profondo e che rimane acceso sempre, ma che col passare dei film e degli anni diventa una flebile lucerella. 
Ci scrodiamo che il Cinema è quella cosa che ti fa capire la Vita.
E non sento di esagerare neanche un po'.
E, ripetendomi, sono davvero pochi, pochissimi i Film che DAVVERO ti fanno capire perché Ami il Cinema. 
Vogliamo Vivere! è uno di quelli. 
E credo che la smetterò qui, perché elencare i tanti, infiniti, motivi per cui questo film ti entra nel corpo e non ti lascia mai più (io so che non mi lascerà mai più) sarebbe addirittura irrispettoso verso la sua grandezza.

Vi basti sapere - se vogliamo sconfinare nella cultura pop, anche se questo film di pop (almeno nell'accezione contemporanea del termine) non ha proprio nulla - che se recuperate oggi Vogliamo Vivere!, non guarderete più Inglourious Basterds con gli stessi occhi, ma con occhi più consapevoli e capaci di capire da chi davvero Tarantino "ruba/cita"; perché Tarantino è furbo, o meglio scaltro, Tarantino è quello che ti dice che ha rifatto un filmaccio italiano di tanti anni fa, e invece ti cita a piene mani un Capolavoro americano di ancora più anni fa. 
E capirete anche la grandezza rétro di un attore come Christoph Waltz, che è grande perché recita come lo farebbe un attore del 1942, solo in un film degli anni 2000.
Ecco, se vedete oggi Vogliamo Vivere! capirete più cose, non solo di Tarantino, ovviamente, ma del Cinema quello vero, capirete se potete dire "Amo il Cinema" con certezza o con superficialità, capirete magari anche come fare la pizza, chissà.
Andate a vedere Vogliamo Vivere! Per davvero.
Io intanto cerco di creare un Ciebbì Touch.

Clamorosi poster d'antan polacco e tedesco (credo)
[In Polonia ogni attore era Carmelo Bene...]

mercoledì 5 giugno 2013

Grande Trilogia della Bellezza • La dolce vita

La dolce vita
Trama: Marcello!

Portiamo a termine un virtuale viaggio nel niente con quello che è - volente o nolente - IL film sul niente.
Per chi bazzica C&B non è una novità scoprire che Fellini non è "cosa mia"; non amo i suoi pagliacci, le sue maschere, le sue strade, le sue derive oniriche, non ci posso far nulla e non intendo neanche farci nulla, se c'è una cosa che ho imparato vedendo settemilacinquecentomila film è che non puoi proprio farti piacere uno stile che non ti piace, un regista che non ti piace, un film che non ti piace, un'idea che non ti piace. 
Eppure, messo al muro da un laconico «Non PUOI recensire Il grande Gatsby e soprattutto La grande bellezza senza aver visto La dolce vita. Non. Puoi.» ho intrapreso la visione.
La dolce vita non è (solo) un film "felliniano", è piuttosto un film incredibile, che va oltre la sua firma.
Certo, i tempi e i modi sono tanto cambiati, noi spettatori siamo tanto cambiati e non siamo più abituati alla modalità narrativa del cinema di un tempo, quindi ogni visione di questo tipo richiede un impegno (parlo della spinta iniziale e ovviamente parlo per me) più forte rispetto all'approccio che abbiamo per un film contemporaneo; eppure ogni volta che capita di vedere un Grande film del passato, scopri (e ti senti un po' idiota per la semplicità dell'equazione) che tutto, e sempre, viene proprio da lì, dal cinema che fu, e quando hai l'occasione di riprovarlo a te stesso, è una bella lezione, anche di umiltà critica.
Quello che mi preme - lungi da me lanciarmi in una vivisezione di Fellini, che in un atto di puro maniavantismo, ho appena ammesso di essere fortemente ignorante sull'argomento - è soffermarmi su Marcello, Marcello personaggio, non Mastroianni (attore inarrivabile, comunque).
Lo faccio perché dopo Gatsby e Jep Gambardella, quello di Marcello è un altro tassello nella costruzione di un uomo vivo, ma che pare morto, un uomo che sente, ma che non prova, o che almeno decide scientemente che i suoi sentimenti possono essere indirizzati a seconda delle sue volontà, anche se la direzione non è quella giusta, anche se è autodistruttiva e autolesionista, o almeno così viene sentita dal sentire comune. 
Ma una scelta, seppure negativa, non rimane un puro atto di vita?
Il niente di cui Marcello si circonda e si riempie è il più vuoto dei nulla possibile, le sue feste sono meno sfarzose di quelle di Gatsby e non essere lui l'organizzatore (e contemporaneamente l'ospite d'onore) lo spoglia di quei "vestiti nuovi dell'Imperatore" che perlomeno rendevano affascinante Gatsby all'occhio estraneo; le sue feste poi sono più sensuali e "psicodrammatiche" di quelle viste nella Grande Bellezza, sono più cerebrali anche se ugualmente opulenti, per questo, almeno all'inizio, Marcello ne è coinvolto, non ci sono trenini che non portano da nessuna parte, ma chiacchiere chiacchiere e ancora chiacchiere, e la destinazione è la stessa: nessuna parte.
Con l'alibi del giornalismo - anche se l'unica volta che vediamo Marcello tentare di scrivere si interrompe, distratto da un'anelito di semplice innocenza popolare, la biondina che poi chiuderà anche il film - Marcello partecipa alla Dolce Vita: attrici americane vanesie
concerti nei fori imperiali (nella Dolce Vita appare Celentano, nella Grande Bellezza Venditti, nella Dolce Vita starnazzano oche giulive, nella Grande Bellezza migrano fenicotteri rosa), artisti decaduti, prostitute dal cuore d'oro, nobili che non si stupiscono più di nulla. 
Ma lo fa nel peggiore dei modi, da spettatore - dei peggiori poi, di quelli che non riescono neanche a rielaborare l'esperienza con la dovutà dignità  - e non da protagonista attivo. 
E una volta spogliato del suo intento giornalistico, la Dolce Vita per Marcello diventa solo un virus, una dipendenza, una droga nociva che lo porterà all'autodissoluzione.
E poi Roma, così diversa da quella schiusa come un'ostrica da Sorrentino; la Roma della Dolce Vita ci racconta di una Via Veneto che per illuminare le starlette capaci solo di ripetere a pappagallo quello che gli dice il produttore, ruba la luce alle periferie, dove invece si vive l'Amara Vita della povertà. Una Roma dove sui palazzi in costruzione non ci batte il sole e che sono circondati da strade sterrate, anche se poi nascondono appartamenti di design, esattamente l'opposto dei loro inquilini, belli fuori, polverosi dentro.
Marcello è un personaggio dalle mille facce, forse uno dei più densi e sfaccettati che io ricordi: inquieto e fascinoso, un uomo che abbandona la donna che lo ama tanto incondizionatamente da pregare la Madonna per farlo essere proprio come vuole lei, marito perfetto Casa&Chiesa, mentre lui a questa dichiarazione l'accusa di volere per lui una vita da verme, che lui non potrà mai essere quel marito imperfetto che si spenge dentro e come sfogo al massimo una casa chiusa.
Marcello è un uomo che nega l'amore per poi volerselo riprendere dopo un secondo, e dopo ancora un secondo denigrarlo, a ancora un altro secondo dopo impietosirsi, e odiarsi per quella pietà, e via così, di secondo in secondo in un patetico ping-pong di tormenti vomitati vicendevolmente. Un uomo che - in una scena straziante (citata da Sorrentino, di nuovo) - poi spreca dichiarazioni d'amore a nessuno, donandole giusto all'aria, in un gioco di strane architetture acustiche e stanze vuote.
Non è un film facile, La dolce vita, è fatto di tanti spezzoni che paiono slegati tra loro, archi narrativi chiusi che compongono un mosaico delle personalità di Marcello, e del suo disfacimento, ma se un palazzo antico più invecchia e incupisce, più acquista fascino, un uomo più scende a compromessi, più marcisce.
La festa finale, organizzata a forza, rompendo un vetro pur di prendere possesso del salotto di turno, è la deriva finale (non a caso un mostro marino spiaggia proprio a pochi metri da lì) e quando Marcello, ormai maestro di cerimonia, giullare che impiuma e denigra la donna... le donne, che strana, difficile contrastante figura ci fanno in questo film.
Eppure questi (Gatsby, Jep, Marcello) sono tre personaggi che non si riescono ad odiare; il sentimento più diffuso - stando appunto a quanto è emerso da una serie di "interviste" - è la pena: pena per uomini persi, grandi bellezze buttate alle ortiche, dolci vite col sapore amaro in bocca, intelletti persi dietro l'avere più che davanti l'essere. Eppure io non ho provato pena, neanche un secondo di nessuno dei tre film.
Cosa ti aspetti dall'intelletto, la felicità? Impossibile. Il ragionamento ha tatuato su di sé il tormento, l'intelligenza è costruita sulla paranoia, la vita stessa si palesa con tutta la sua potenza nell'inquietudine.
Affascinanti, imperscrutabili, misteriosi eppure disperati, vuoti. Ma essere vuoti è ben diverso dall'essere pieni di niente. Siamo soliti dire: "ho passato una bella giornata, non ho pensato a niente". E sbagliamo, perché anche il niente riempie, e devi saperlo gestire.
La grandezza di Gatsby non sta anche lì? Nell'aver creato un niente perfetto, da quello che aveva, cioè un nulla totale?
La bellezza di Gambardella non sta proprio lì? Nell'essere critico del niente, ma mai con rabbia, vetriolo e sarcasmo quelli sì, ma non negando mai la sua appartenenza e interdipendenza a quel niente. 
La dolcezza di Marcello non sta proprio lì? Nell'essere ormai perso, ma ugualmente allargare le mani vuote di fronte a una possibile normalità, l'ennesima che gli si presenta davanti questa volta dai tratti dolci di una ragazzina bionda e, senza parlare, prima di voltarsi, dire... 
Non esiste Grandezza, Bellezza o Dolcezza. 
Esiste la vita, che è grande, bella e dolce. A volte.

martedì 4 giugno 2013

Grande Trilogia della Bellezza • La grande bellezza

La grande bellezza
Trama: Jeppino, come here!

«Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire.»
Vedere La grande bellezza subito dopo (dopo qualche giorno, perlomeno) aver visto Gatsby,  è sembrato quasi un gioco del destino bislacco.
Ancora carico di suggestioni e ragionamenti (sviscerati fino allo sbrodolio ieri, avete letto? Tutto? Che matti che siete.) mi ritrovavo dentro un film dove, potenzialmente, assistevo alla deriva - per quanto italiana, anzi romana e per quanto contemporanea e  geopoliticamente difforme - che un personaggio come Gatsby poteva far prendere alla sua esistenza; non si fosse scontrato con Daisy e un proiettile.
Sorrentino torna in ItaGlia dopo l'esperimento fallimentare d'oltreoceano, stritolato sotto l'Ego da Actor Studio di Maurisa Laurito Sean Penn, ma non solo: lo stile e la coscienza di averli, stile e coscienza, sono peccati veniali quando si trattano con consapevolezza, This Must Be the Place era un noioso e ridondante esercizio di stile sorrentiniano e, peggio ancora, un film noiso.
Invece, il ritorno in patria da figliol non tanto prodigo, fa bene, benissimo a Sorrentino.
Ho scoperto Sorrentino tardi, con disordine (immergendomi ne Il Divo, amando L'amico di famiglia, riscoprendo L'uomo in più) e più lo "conoscevo" più ammiravo il suo modo di fare cinema: personale, sicuro di sé, grottesco e barocco ma al tempo stesso lucido, a tratti ferale a tratti surreale.
Tutto questo cinema è compresso ne La grande bellezza, che non è un film esente da difetti, che non è un Capolavoro, ma, riesce a far di errore virtù; è un film sbagliato per la cultura stessa da cui prende spunto: lo sbaglio. 
Ed diventa un gran bel film.
Nelle scorse settimane mi pare che la critica (che poi, "la critica", mettiamola così: la gente che ha visto il film) si sia divisa in schieramenti ben definiti: c'è chi ha amato il film (come me) e ne parla poco, o meglio non chiede spiegazioni, e forse neanche se ne dà; e c'è chi l'ha odiato, e fino a qui, nulla di strano; ma proprio questi ultimi, diciamo gli anti-sorrentiani, hanno sentito il bisogno di esternare questo "odio" via status di fb, via tweet al vetriolo, via chiedere a chiunque "l'hai visto la grande bellezza? che ne pensi della grande bellezza? ti piace è piaciuto la grande bellezza? è bello la grande bellezza?". Come se Sorrentino li avesse messi un po' a disagio. O meglio, visto che il disagio è sì una delle condizioni in cui ti mette il film, quel disagio poco si addicesse a un qualsiasi pensiero critico rispetto al film. Della serie: «Anche a te non è piaciuto? Benissimo, pensiero comune mezzo gaudio, almeno so di non essere scomodo da solo». 
Sono riuscito a spiegarmi? 
Ci riprovo: «Dunque a me sostanzialmente il film non è piaciuto ma non sono riuscito a centrare i motivi, o meglio, visto che il film è un po' per l'intellighenzia o per l'intellighenzia wannabe, sento che mi serve dire cose intellighenti sul perché non mi è piaciuto, ma non riesco a formarle da me, quindi prima di tutto chiedo, lascio parlare e mi accodo con dei "già, giusto, esatto"».
Ma serve a qualcosa fare così? Non serve a niente. E siccome La grande bellezza è anche lui un film sul niente, siamo sicuri che non sia un pensiero anche quello? Il pensare niente intendo. 
Il film ha per protagonista un uomo-testimone, destinato alla sensibilità.
Un uomo che in quel niente di sguazza, lo vive sia da protagonista che da spettatore, non senza uno sguardo cinico e limpido su quanto quel niente, nonostante sia, appunto, vuoto e vacuo, gli serva; un niente che riempie e svuota al tempo stesso.
Jep Gambardella - un Servillo nel perfetto ruolo di Servillo - è uno scrittore che ha sublimato lo stato di "crisi", che ha portato allo stato dell'arte il concetto di Blocco dello scrittore, che ha fatto della sua mancanza di ispirazione la sua forza, la sua... ispirazione. 
Forte di un clamoroso successo di critica e pubblico per il suo primo, lontano, romanzo, Jep è diventato centro nevralgico della nevrastenica "bella" (non Dolce) vita dei salotti romani: quella società "cafonal" che ha una particolarità tutta sua: i vizi e le virtù sono proprio la stessa cosa.
Un botox-party è al tempo stesso uno sfoggio di decadenza e una rinascita.
Una festa per il compleanno del caro amico Jep è imperdibile per distruggersi, rendersi ridicoli, ballare danze latinoamericane fuori tempo massimo e al tempo stesso affermare il proprio status. Festeggio, quindi sono.
E le feste - contrariamente a Gatsby - sono un punto di partenza entusiasmante (per quanto paurosissimo) del film di Sorrentino.
Si parte col botto con questi corpi tesi dall'isteria, dalla musica commerciale e dalle droge sniffate, e si entra subito in un girone infernale, mascherato da circo: nane, ballerine, uomini piccoli, uomini grandi, mangiatrici di uomini (grandi e piccoli), mangiatrici di fuoco, il cuoco famoso, tutti alla festa di Jep.
Non proprio come lo è Gatsby (nonostante il fallimento), ma anche Jep è Grande. Lo è con una sfumatura grigia di chi è ormai privo di sogni, di chi ha fatto di uno stile di vita uno stilema, una ripetizione, un loop da cui non può (e non vuole?) più uscire, a meno di uno sforzo disumano, o di un sogno, o di un incontro.
Gli incontri sono ciò che muove il personaggio Jep. Lo immaginiamo ingabbiato in quella vita da decenni, nonostante dica "a 65 non posso più fare quello che non mi va di fare" (in perenne voce off, spettatore e al tempo stesso narratore anche della sua stessa vita) alla fine di cose che "non gli va di fare" ne fa fin troppe (intervistare performer ridicole, presenziare feste artistiche dal gusto impeccabilmente esagitato e poco signorile, scopare donne annoiate che per lavoro "sono ricche"), fino a quando un incontro lontano dalle luci di una ribalta sdrucciolevole su cui passeggia Jep, appunto il jet set (il Jep Set), tutto popolato da poco talentuosi pagliacci, lo riporta su una via - magari un po' semplicistica - più retta, la via della ricordanza, della nostalgia, della Bellezza semplice e grande di un bacio salato.
Il film di Sorrentino è carico, carico come lo è il mondo che racconta. Ci sono tanti - forse troppi? devo rivederlo - spunti, tanti personaggi, tante cose dette e ancora di più pensate.
C'è Sabrina Ferilli con un corpo mozzafiato e bravissima, perfetta, dimostrazione (come già fu per Virzì) che se sai dirigere gli attori puoi far recitare anche un cotechino (lenticchie comprese).
C'è Carlo Verdone che in uno slancio di meta-sceneggiatura chiude la sua apparizione, triste e di piena di romantico squallore, con la frase "Roma mi ha molto deluso", frase che, detta da Verdone, assume un significato grande ed eterno quanto tutta la Città.
Ci sono tutti gli altri, Buccirosso e Iaia Forte, c'è Serena Grandi che spaventa e impietosisce, c'è Pasotti mastro di chiavi. C'è tutta una romanità mostruosa, quella dell'incessante "M'HA ROTTO ER CAZZO", una frase più volte ripetuta ma mai con la potenza di un'incazzatura reale, quanto più un rumore di sottofondo, ormai quasi al pari di una citazione latina. A Roma c'è il traffico, i gabbiani che ridono, la gente che dice "M'HA ROTTO ER CAZZO" al telefonino.
E a Roma c'è uno Stato, interessante: il Vaticano. Impossibile non rimpire, in ogni dove, il film di tonache e abiti talari, preti e pretacci, sante e santoni. Ma tutto è surrealtà, in fondo, la Chiesa stessa è la surrealtà fatta istituzione.
La bellezza del titolo è quella di Roma, dell'eterno, delle proporzioni auree delle sculture richiuse e racchiuse in scrigni-palazzo di cui in pochi hanno le chiavi; la Bellezza della città negata alla città, ai suoi cittadini, una Città, Roma, che urla sguaiata in faccia a chi non la conosce racconti di troioni con le labbra rifatte, di ricconi incravattati, di coatti in ciabatte, di calciatori prezzolati, ma che invece dentro racchiude una Bellezza antica come il mondo, che poche altre città - anzi nessuna - possono vantare: Roma è la Grande Bellezza, negata al mondo. Infatti i proprietari delle chiavi che aprono le porte che celano a noi questa Grande Bellezza siano proprio gli stessi che pretendono di trovarla servita su piatti d'argento su un buffet gratuito alle feste di Jep.
Jep non è Jay, Gambardella non è Gatsby, eppure il parallelismo diventa quasi inevitabile. Non fosse che il richiamo molto più sensato è quello con La dolce vita, film che sono praticamente stato costretto a vedere (ammetto, m'ha rotto er mea culpa, per la prima volta) e che chiuderà la Grande Trilogia della Bellezza, domani.
Intanto la è Grande la voglia di rivedere la Grande Bellezza,  un film pieno, stratificato, grande, bello. Bentornato, Sorrentino.
Vi copio incollo un commento di Genna (scrittore che ho grandemente amato in Hitler, forse ultimamente un po' vittima di se stesso nell'utilizzo delle parole) sul film, postato sul suo FB:
Ho visto "La grande bellezza", il film di Paolo Sorrentino. Mi sembra sbagliato il riferimento polemico a ciò che è sovraccarico e letterario: è voluto e condotto molto bene, la recitazione è testuale, come raramente mi è capitato di esperire (la dizione allitterante e consequenziale ai ritmi della frase è proprio l'interpretazione corretta di un testo poetico). Angosciante presenza metanarrativa dell'editor di Stile Libero Einaudi, Severino Cesari (l'altro editor, Paolo Repetti, appare in una microsequenza inutilissima). Non c'è storia nel senso algoritmico; forse, se perfino un'arte attardata come il cinema se ne accorge nel mainstream, anche i narratori prenderanno in considerazione l'ipotesi che le storie non sono propriamente ciò che scrivono. Assolutamente da considerarsi fuori registro i riferimenti alla "Dolce vita" di Fellini, nati con la complicità non so quanto furba di Sorrentino, che è andato a piazzarsi proprio a quella longitudine e quella latitudine. Del resto, a oggi, leggendo i commenti, ci si chiede quanto è stato percepito di quel capolavoro felliniano. Non c'è un briciolo di trascendenza in tutto ciò e, per questo motivo, non si tratta di un'opera d'arte. Non si tratta però nemmeno di un'opera sociologica, poiché l'apparizione delle terrazze non è motivo precipuo ma unicamente occasionale (peraltro, non si tratta soltanto di Roma: è un mix tra i salotti di Milano e Roma). Il momento più alto è una di quelle che con Igino Domanin chiamavamo "ipostasi Lounge": appare Antonello Venditti, da solo, a cena, il cuoio umano scintilla di una luce sinistramente accecante - però trattasi di Venditti e non di Sorrentino. Insomma, non è "Cafonal" e nemmeno "La dolce vita". Ha momenti estetici che non sono metafisici. Tutto è assai calcolato inutilmente, sovrabbondano i carrelli inutili. Al massimo, si arriva all'esotico (una giraffa vivente nel Colosseo, ma c'è già il Colosseo in quanto arcaico nel presente - e non è trattato come tale). Toni Servillo non è né Marcello Mastroianni né Ryan Gosling. Forse Sorrentino non aveva le ambizioni che gli attribuivo, nel qual caso mi chiedo perché, non avendo ambizioni alte e desiderio di rischiare, uno si metta a fare un film costoso. Tra l'altro un set con quei nomi è molto più di una terrazza romana ed è il primo immediato analogo che si coglie. Quindi si può asserire che Sorrentino ha fatto un film sul cinema: non come lo fece Fellini, bensì in linea con l'ipocrisia naturale del 2.0, finora incapace di partorire l'opera d'arte.
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lunedì 3 giugno 2013

Grande Trilogia della Bellezza • Il Grande Gatsby

Il grande Gatsby
Trama: Gatsby, sei un grande...

Ho visto il nuovo attesissimo film di Luhrmann il giorno dell'uscita, ormai tre settimane fa, e ho aspettato fino ad oggi per scriverne, perché c'era bisogno di ordinare, e bene, molti pensieri, voli pindarici, ragionamenti, vestiti sgargianti, collegamenti, spunti, ma c'era, soprattutto, la necessità di dare una forma precisa alla delusione. A volte, in passato, ho scritto recensioni nell'immediata successione visione-recensione-titoli di coda. Non vorrei ripetere alcuni errori del passato. 
Come quello di credere che le frasi dei film, solo perché escono dalla bocca di un attore piacente e compiacente, siano tutte vere sempre.

[Nun se po ripete er passato?]

[Se po se po]
L'attesa (chiamalo hype, se sei giovane, noi grandi parliamo con un lessico antico) che un titolo come questo ha scatenato sin dal primo rumor (sono ringiovanito) era... grande. Era grande come tutti i nomi coinvolti, grande come il testo originale, grande come le possibilità. Tutto era grande. 
Baz Luhrmann e il suo stile carico di eccessi, di nuovo con Leonardo a 15 anni di distanza da quel Romeo + Juliet che grande bene fece a entrambi, poi gli effetti speciali e i lustrini, le feste, e la colonna sonora ipercontemporanea ad opera di ricchissimi rapper coi labbroni. C'era di che trepidare, c'era di che voler andare a quella festa per il cinema che poteva essere. Ma, come sempre, grandi aspettative generano grandi delusione (parafrasando una frase tanto cara a Tobey, to bey or not to bey).
Il grande Gatsby è un coitus interruptus (il passato ritorna): e non c'è davvero altro esempio, benché possa sembrarvi esagitato e adolescenziale, che mi viene in mente.
Gatsby è padrone dell'eccesso controllato, regista maniacale del divertimento (prorio come Baz), sempre quello altrui ovvio (noi spettatori per Baz), stratega impossibile di una vita che non è mai come quella che vuoi. 
Non ho letto il libro prima della visione e sento il peso di questa assenza, non conoscere le parole originali di Fitzgerald (tradotte dalla Pivano o su un'edizione pagata meno di un caffè, credo importi in senso relativo, perché una traduzione non sarà mai l'originale) mi rende monco mentre scrivo, mi rendeva cieco mentre guardavo e muto mentre ne parlavo (ma ho ascoltato molto da molte voci, in compenso) e, in un certo senso, impotente nell'espressione critica di questo post.
Parlo di un film ma so che questo, più di tanti altri, sarà un post tronco, un po' ignorante.
Il grande Gatsby è stato solo attesa. Ecco, la cosa migliore che potete fare per godervi Il grande Gatsby, se siete ancora in tempo, è non vederlo. 
Lasciate che la vostra immaginazione renda il film un capolavoro, fate sì che le scene festaiole che nei trailer e nelle mille gif gentilmente fornite
siano solo desiderio di feste, desiderio di balli scatenati; fatevi abbagliare dai flash e desiderate il film perfetto su Gatsby, che non è questo, e forse non esisterà mai, come la perfezione in sé.
Fate come farebbe Gatsby, non siate presenti alla delusione. Lo smacco di assistere al fallimento. La tristezza nel rendersi conto che Baz - proprio lui, proprio quello che ha saputo, sin da Romeo + Juliet 

[Paul Rudd?!]
ma soprattutto in Moulin Rouge!
creare feste cinematografiche serrate e avvolgenti - ha fallito.
Si parte con una breve quanto virtuosistica - per favore, sparate sul 3D - presentazione del personaggio che ci accompagnerà per la mano nelle ville fastose (mai festose) di Jay Gatsby, quel tenero e "bambacione" Nick Carraway, che poi siamo noi intontiti con lui dai racconti di mille vite vissute e affascinati dal mistero manierista di quel multimiliardario imperscrutabile, capace di lanciarsi in uno slancio amicale sfrecciando a 150 all'ora su una macchina dorata che illumina a sprazzi, fino almeno al momento in cui la scia non svanisce, l'oscurità interiore. Ma è la festa, il concetto stesso, il vero punto di partenza di Gatsby (film e carattere). 

Ecco, la festa.
La festa è il momento dell'affermazione dell'Io, l'affermazione di grandezza. Gatsby non è quasi mai presente alle sue feste, perché non è quello il punto. La festa è un'entità organica a se stante: donne lascive e studenti intraprendenti, milionari annoiati e gente di malaffare, tutti vanno alle feste di Gatsby, tutti necessari tutti dispensabili, l'unico a vincere è l'Ego di Gatsby, peccato non ci sia un Io a sorreggerlo. E qui Luhrmann commette il suo primo grande errore: le feste non sono divertenti, sono a basso volume, il montaggio è alternato sì, ma alternato tra l'appesantimento e la lentezza. Volevamo un videoclip, sì lo volevamo, eravamo pronti a perdonare uno slancio in avanti nello stile, un'accellerazione e anche una sbandata, avremmo accolto caldamente mash up folli come già facemmo nel vedere Tebaldo e Mercuzio sfidarsi a colpi di pistola e con i denti con diamanti al posto di carie, come altre volte facemmo per altri registi (le Converse All Star in Maria Antonietta), e saremmo stati felici, ce lo saremmo ricordati, magari un po' intontiti anche noi dallo sfarzo non comune, da quel tipo di richezza (visionaria e virtuosa) che non può essere raggiunta dagli essere comuni come siamo noi spettatori rispetto a Hollywood (le feste di Hollywood, non sono perfette nel nostro immaginario?); e invece a vincere è il sottotono, l'acustica ovattata, la comparsa che inquadrata per quei 4 secondi di troppo rivela il suo finto divertimento a pagamento.
Le scene delle feste sono il fallimento su cui poi si basa l'errore in tutto il resto del film, che no, non mi è piaciuto.
Presi singolarmente gli elementi de Il grande Gatsby non sono così deludenti, ma manca una forza impattante che era obbligatoria, visto, riprendendo il discorso, l'attesa e la venerazione che si è creata intorno al film e che già c'era per il testo originale (so di persone che stanno affilando mazze ferrate nel caso dovessero incontrare Baz per caso, magari a una festa...).
Gli attori - fatta eccezione per quella cagna dalla faccia di pane che è e sempre sarà Carey Mulligan, davvero l'attrice più insulsamente sopravvalutata in vita

sono all'altezza della situazione; Leonardo, creato geneticamente per essere corrucciato
è un Gatsby che si porta dietro un buon bagaglio di celebrità e delusioni (più che altro le mille candidature "lisciate") e che, in un discorso un pochino meta-filmico, veste i completi su misura di Jay Gatsby con una buona - non perfetta - posa. Abbiamo già detto di Maguire, il più convincente a dirla tutta. 
Poi sì, Joel Edgerton, muscolare australiano in un ruolo che personalmente ho recepito in senso del tutto inverso da quanto ho sentito da più voci: cattivo? arrogante? traditore prima ancora di tradito? ignorante? Ma non è lui perfetto contraltare di Gatsby? Non è la vacuità e la bugia su cui si fonda l'amara vita di Gatsby contrapposta con la vita "vera" di Tom Buchanan? Non è l'idea di un amore creato come un set perfetto in cui recitare nella testa di Gatsby contrapposto con la vita terrena di un amore - o un non-amore - della coppia Tom/Daisy?
Sono domande non retoriche. Sono domande che mi e vi faccio per davvero. Intavoliamo un discorso per una volta, non facciamo l'errore tutto internettiano di accontentarci di un meme o di una gif animata, tipo questa:

o questa
Ecco, la festa e la velocità.
Gatsby corre in macchina. Chi corre in macchina non ha fretta di arrivare in un posto, chi corre in macchina ha fretta di allontanarsi dal punto di partenza. Gatsby gli dà gas (grande GASby). 
Le scene di corsa - le più riuscite, anche se sono giusto un paio - sono molto più funzionali delle feste. Gatsby racconta la sua vita piena di eventi con il piede sull'accelleratore e va più veloce la lingua che i giri sul contachilomentri. Nick si regge forte. Poi, nel finale, in uno sfortunato scambio di automobili, la vita di Gatsby prende la sua piega più reale, l'incidente e la dimostrazione, la prima "reale", che è pronto a rinunciare a tutto per amore, una possibilità che Gatsby non ha mai neanche messo in conto di fare per Daisy, anzi è proprio per lei che Gatsby ha creato un paradiso opulente, ma proprio lei, l'egoista faccia di rosetta (da oggi Carey MulliPAN), le chiede di abbandonare tutto e scappare 

Ma Gatsby non può - e non deve - lasciare lo Shangri-la sfarzoso che ha costruito con il sudore della fonte, fonte di giovinezza e denaro sporco. La richiesta di Daisy è assurda, è capricciosa, è la sua personalità, molto piccola e non solo se messa a confronto con quella molto grande di Gatsby, messa a nudo: chiedere a Gatsby di non essere più il grande Gatsby è una dimostrazione di pochezza urlata con un filino di voce flautata e lo sguardo vacuo 

(tanto che ti viene da pensare che il fioraio abbia sbagliato fiori e abbia riempito la stanza di quelli soporiferi, o carnivoli)
la dimostrazione che la cosa che Daisy ama di più è di fagocitare ogni attenzione e rifiutare ogni affezione. 
Quanti di voi hanno sperato che Jay prendesse per sbaglio un posacenere di piombo al posto di una camicia e colpisse "accidentalmente" Daisy dritto dritto in mezzo agli occhi?
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E Gatsby, invece, può sentirsi grande solo se specchiato in occhi che lo venerano, negando a se stesso un altro tipo di grandezza, che io, giovane maschio italico nel pieno della sua nascita ego-maniaca e alla ricerca della sua personale grandezza, ho letto in un modo che, pur ammettendo possa non essere quello giusto, ha cozzato con molte delle opinioni che ho sentito e controbattuto in queste ultime settimane. 
Ecco, la festa, la velocità e la Grandezza.
Con la G maiuscola, questo è il punto. Il Punto G maiuscola. Gatsby è grande proprio perché dà un significato grande al Nulla. Al possesso. Al possedere nulla e donargli un peso specifico che è molto più dell'oro, dei fiumi di alcool, dei vestiti su misura; o meglio, è tutte queste cose modellate e riempite di significati. Un gioco di specchi infinito in cui Gatsby diventa i suoi vestiti, ma i suoi vestiti diventano Gatsby. Quasi un supereroe nella sua maschera. Identità segrete nascoste e celate. Ce l'hanno i supereroi, ce l'ha Don Draper (per chiamare in causa un altro uomo tormentato della cultura pop contemporanea), e, fateci i conti una volta per tutte, ce l'abbiamo anche noi. Forse non propio ognuno di noi, ma quelli che sentono dentro un barlume di profondità, loro sì. Perché non c'è fascino, non c'è intelligenza, non c'è lampo creativo (che può essere una festa sfarzosa quanto un libro dal il contenuto discutibile, ma dalla cover slendida) senza un'ombra che li ricopre, senza una malessere dato dalla comprensione o dall'incomprensione, senza una melassa tormentata che attutisce lo slancio e rallenta il movimento (ma nello stesso tempo culla, e culla chiunque ci si tuffa).
Le molte voci che ho ascoltato mi hanno raccontato di un Gatsby "vuoto", di aver visto in lui l'impersonificazione di quel (un po' banale) adagio che recita "i soldi non danno la felicità", Gatsby per molti è la dimostrazione letterata (e filmica) che l'Amore è l'unica cosa, che se non sai amare o ami in maniera ego costruita, come ama Gatsby - che per anni idealizza nella testa un amore e una vita che poco rispecchia la realtà e che poco c'entra con l'altra metà del suo universo, universo che Gatsby riempie benissimo da solo - non sai vivere, non sei nessuno. 
Quanti errori in un solo pensiero, o quanti pensieri in un solo errore: l'Es di Gatsby (Grande gESby) è. Gatsby è, e quindi non può non essere (infarinature di filosofia tirate fuori dal cappello dei suoi studi classici, lo fa Ciebbì per fare colpo. Poi non ha letto Fitz, evvabbèdai). La personalità di Gatsby, che impatta contro gli altri in vestiti su misura, vacuità, sfarzo e velocità, è solo una distrazione: dietro c'è il tormento, la tempesta, l'amore infinito e infinitamente idealizzato; non a caso, quello che di meglio può capitare a Gatsby è morire (dai, lo sapevate). Gatsby adulto sarebbe diventato Gep Gambardella (vedi domani.)
Il film non mi è piaciuto, perché ho intravisto quello che poteva essere. Ho visto una grande promessa disattesa, avevo idealizzato le feste (vi dico solo che a raccontare una festa di quegli anni ci riesce meglio Woody Allen, senza sfarzo, nel suo Midnight in Paris, dove peraltro c'è un Fitz perfetto!), le corse e il personaggio, mi era stata promessa una grandezza che non c'è stata, una bella grandezza sostituita con una piccola mediocrità. Sì, i vestiti sono perfetti, Elizabeth Debicki è perfetta e troppo poco presente
ma non c'è l'impronta indimenticabile, non c'è la "zampata" (altra festa fallimentare, oltre a quelle corali poco adrenaliniche, il festino nel bordello, uno stato alterato sprecato così, con due inquadrature distratte, che peccato). Vi prego fermatevi, ora NON vestitevi Gatsby-Style, siete orrendi.
Un film che voleva essere un grande film, e non riesce neanche ad essere un film grande.
Invece, tempo fa, a proposito di cover e ricover, qualcuno lanciò un contest per ricopertinare l'amico Fitz, ecco alcuni risultati (la prima è la vincitrice):
Anche se quella della prima edizione, ampiamente citata nel film, è.
Certo, la colonna sonora qualche perla ce l'ha
peccato finiscano un po' così:
daisy matrimonio 1
QUI giochiamo a fare Gatsby, lo facciamo un po' tutti, qualcuno con più coscienza (leggi incoscienza) di altri. 
And so...